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[...]Ci sono, nel nostro modo corrente di pensare e di vivere,

elementi che hanno bisogno di essere verificati e forse cambiati? Parto da un’ipotesi molto

semplice: che buona parte del disagio che stiamo vivendo sia dovuta a un eccesso di

individualismo anarchico che motiva le sue scelte col solo desiderio privato e non tiene conto degli

effetti che la soddisfazione dei desideri individuali ha sul benessere collettivo. Non ce l’ho con

l’individualismo in se stesso, cioè con la scoperta del soggetto come soggetto, con la

rivendicazione della sua libertà, con l’aumento progressivo dei diritti che vengono riconosciuti a

tutti. Sono anzi convinto che si tratta di scelte buone, che hanno contribuito a rendere la nostra

società più umana.

Il problema nasce quando la rivendicazione degli spazi di libertà e di

realizzazione del singolo viene avanzata senza attenzione agli effetti che questa rivendicazione ha
sulla vita degli altri. È il progresso di tutti che permette ai singoli di godere spazi di libertà sempre

più grandi. L’uomo dell’età della pietra godeva di ben pochi diritti nell’ambito della salute o del

lavoro o della cultura, proprio perché scarsi e deboli erano i legami con gli altri. Solo quando gli

uomini hanno imparato a collaborare, a proporsi obiettivi comuni, a costruire insieme strutture

sociali complesse la possibilità di produrre e quindi godere beni materiali e spirituali è cresciuta

progressivamente. Se ciascuno tende ad assolutizzare i suoi desideri, se la società va dietro ai

desideri dei singoli, finirà per disgregarsi il tessuto della solidarietà sociale e, alla fine, il singolo

stesso si troverà privato dei tanti benefici che una società coesa gli garantiva. Insomma: libertà

personale e responsabilità sociale non sono contraddittorie e nemmeno estranee una all’altra,

come spesso si ritiene; vanno invece insieme: insieme crescono e insieme decadono.

La società è un sistema che unisce persone e gruppi sociali con vincoli che valorizzano

l’apporto di ciascuno al bene di tutti e impediscono che uno (il più ricco o il più furbo o il più forte)

prevarichi sugli altri. È illusione pensare che si possa togliere o spostare un elemento del sistema

lasciando il resto del sistema intatto: quando si muove un pezzo degli scacchi cambia, poco o

tanto, il valore di posizione di tutti gli altri pezzi. Se dal complesso della società togliamo un

elemento, il suo posto sarà prontamente occupato dagli altri e il risultato complessivo sarà

diverso. Questo non significa che non si deve cambiare nulla; al contrario, siamo ben consapevoli

che la società umana è in continua evoluzione e che irrigidirla in una forma particolare è il modo

migliore per soffocarla e farla morire. Ma quando si fa un cambiamento, se si vuole essere saggi, si

deve calcolare prima il prezzo che questo cambiamento comporta a tutti i livelli: economico,

sociale, umano. Non esistono cambiamenti reali a costo zero. Si cambi, dunque, ma con saggezza,

e misurando in anticipo quello che saremo chiamati a pagare.

Spiego subito dove voglio arrivare. C’è un movimento culturale forte, sostenuto da quasi

tutti i mezzi di comunicazione, che spinge per il riconoscimento giuridico di forme diverse di

convivenza, altre rispetto alla famiglia: le coppie di fatto di chi desidera convivere senza

matrimonio, le coppie omosessuali. Non si tratta di questione di fede; non è definito da nessun

Concilio che non si possono legalizzare forme di convivenza diverse da quella familiare; quindi non

ci sono in gioco eresie e scomuniche. Si tratta però di un cambiamento culturale e sociale

profondo e sarà bene ci chiediamo se andando per questa strada miglioriamo o peggioriamo la

società. Già non stiamo proprio scoppiando di salute; vale la pena non fare passi falsi. La domanda

è: il benessere della società migliorerà se riconosciamo giuridicamente queste convivenze? O

tenderà a peggiorare?

La famiglia fatta di marito moglie e figli ha sempre avuto dalla sua parte l’appoggio della

società perché risponde a un bisogno essenziale della società stessa: quello di garantire al meglio

la procreazione, l’educazione dei figli, il loro accompagnamento fino all’età adulta. Se non nascono

figli, la società non ha futuro; tutte le possibili riforme politiche o economiche diventano, a lunga

scadenza, inefficaci. Se i figli non vengono educati in un contesto di sicurezza e di amore,

diventeranno più gravi le loro sofferenze, più facili le loro deviazioni e nasceranno quindi problemi

maggiori per la società. Se i figli sono pensati come ‘proprietà’ dei genitori, sono quindi voluti per

la loro realizzazione umana, sarà più difficile che i figli imparino a usare correttamente della loro

libertà; tenderanno a diventare o ribelli o conformisti. I figli costano molto dal punto di vista

economico ed esistenziale, in termini di disagi e di rinunce: se i genitori non sono educati

all’oblatività – cioè al dono gratuito, al sacrificio di sé – sentiranno i figli come pesi e ostacoli e

tenderanno a diventare aggressivi nei loro confronti. Se si sceglie di stare insieme solo per una

maggiore gratificazione personale, il bilancio sarà normalmente negativo.

La forza della famiglia è il fatto che essa nasce (o almeno: dovrebbe nascere) da un progetto comune di vita nel quale

ciascuno (marito e moglie) si impegna per la vita e il bene dell’altro, e insieme ci si impegna per la vita e il bene dei figli, e insieme

coi figli ci si impegna per il bene della società, e insieme con tutta la società ci s’impegna per un mondo più umano e giusto. È

possibile muoversi in questa direzione senza garantire la stabilità della famiglia nel tempo? Questa stabilità permette alle persone

(marito e moglie) di affrontare il futuro e le sue incertezze con una fiducia di fondo, potendo contare sulla presenza e sull’aiuto

affettivo ma anche effettivo dell’altro. Nello stesso modo una famiglia stabile permette ai figli minori di guardare al futuro con

meno di insicurezza; non è un bene da poco. La vita sociale fiorisce quando c’è una fiducia di fondo condivisa dalle persone. La crisi

economica che stiamo patendo ha, tra le sue cause, anche questa. Una convivenza che non assume alcun impegno di durata nel

tempo, soddisfa alle medesime esigenze della famiglia? O stiamo favorendo una insicurezza diffusa, che produce insoddisfazione,

paura e quindi aggressività? Se riteniamo che la famiglia sia il bene della società, la strada è quella di favorirla rispetto ad altre

convivenze; non per un pregiudizio ideologico o morale, ma per il servizio che la famiglia offre alla società. Se riteniamo invece che

la tendenza a impiantare convivenze senza impegni migliori la società perché rende le persone più felici, il loro riconoscimento

giuridico avrà un senso. Quale sia la mia opinione è del tutto chiaro da quanto ho detto.

In ogni modo non si può dire che queste scelte non incidano sullo status della famiglia tradizionale. È ben diversa

l’esperienza della famiglia se la società la riconosce come l’unica forma di convivenza deputata alla procreazione e all’educazione

della prole o se invece qualsiasi forma di convivenza viene riconosciuta come tale. Naturalmente, si possono avere opinioni diverse,

ma senza barare al gioco, senza fare passare per neutrale quello che neutrale non è. L’anno nuovo che iniziamo è un’opportunità: ci

viene dato ancora tempo; sta a noi saperlo usare con saggezza in modo da costruire una società più solidale e fraterna, più sicura e

ricca di speranza. È anche il mio augurio di buon anno per tutti i Bresciani.