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Sappiamo come si è conclusa l’Ultima Cena.

Non pare, secondo il racconto di Giovanni, che qualcuno dei Dodici si sia alzato da tavola e con la brocca e il catino si sia diretto a lavare piedi di Gesù.

Quei piedi che ancora certamente profumavano per il nardo sprecato da Maria, sorella di Lazzaro durante la cena a Betania.

Forse dopo la sua morte, mentre ricomponevano il corpo, ripensando a quella sera si saranno rimproverati l’incapacità di ricambiare la tenerezza di Dio che è Gesù:

 “Possibile che non c’è proprio venuto in mente di ripetere a lui quello che ci aveva appena fatto???”

Ma poi al mattino di Pasqua le donne superano gli apostoli;

forse era così forte il disappunto della Chiesa nascente per quell’occasione perduta, che esse non seppero fare altro che lanciarsi su quei piedi ed abbracciarli.

Matteo: “Avvicinatesi, strinsero i suoi piedi e lo adorarono”.

 

Forse si sono ricordate del canto di Isaia: ”Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunci che annuncia la pace, messaggero di giustizia che annuncia la salvezza, che dice a Sion: "Regna il tuo Dio” e ancora:

 

” Abbiamo una città forte;
Aprite le porte:
entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà.
Il suo animo è saldo;
tu gli assicurerai la pace,
pace perché in te ha fiducia.
 Confidate nel Signore sempre,
perché il Signore è una roccia eterna;
 I piedi la calpestano,
i piedi degli oppressi, i passi dei poveri”.

 

I piedi di Gesù erano probabilmente bagnati di rugiada, glieli asciugarono e riscaldarono con i loro baci e loro mantelli.

Avevano anche profumi per ungere il corpo e forse in un momento di rapimento e di confusione riversarono sulle caviglie del Signore quei profumi che subito entrarono anche in quei fori quelle piaghe profonde misteriose, “come due pozzi di luce” come ha scritto qualcuno.

 

Vorrei dirvi questa notte che la Pasqua è tutta qui:

nell’abbracciare quei piedi.

 

Quei piedi devono essere il punto di incontro del nostro amore verso il Signore, ma anche la cifra interpretativa di ogni servizio reso ai fratelli, alla gente e la fonte del nostro coraggio.

 

Se non afferriamo i piedi di Gesù, lavare i piedi dei profughi, degli ammalati, dei piccoli, degli abbandonati non basta. Neppure lavarsi i piedi a vicenda, non basta.

In ginocchio dobbiamo interpellare quei piedi sull’orientamento del nostro cammino futuro, come giocarci cioè il tempo che ci è dato. Nella gioia e nel sorriso, perché anche il nostro servizio agli altri non diventi ricerca di sé e motivo di vanto.

 

Non basta avere le mani bucate. Ci vogliono i piedi forati:

 

 “mostrò loro le mani e piedi”,

“guardate le mie mani ai miei piedi: sono proprio io!”

Mani bucate: richiamo alla carità, inesauribile marchio di fabbrica del nostro essere suoi. Grazie per quello che avete fatto per il Caritas Baby hospital di Betlemme e per quello che farete.

Piedi forati: cioè appello esigente a quell’amore verso il Signore Risorto e sempre con noi che ti fa scorgere il senso ultimo della vita, dell’amore, delle cose attraverso le ferite della sua carne che diventano feritoie di luce attraverso le quali possiamo guardare tutto il mondo con occhi diversi, per grazia, sempre più simili ai suoi.

 

Perché anche in questo consiste la grazia di questa notte:

ciò che è accaduto a Gesù è accaduto anche a noi, per lo meno nella speranza.

 

Anche noi non siamo più solamente qui, siamo già risorti.

 

 Le nostre radici sono in alto, là dove Gesù vive con il Padre nello Spirito.

 

Nell’attesa che tutto diventi definitivo il cristiano fa la spola tra il mondo antico che è già nella tomba e la realtà pasquale verso la quale emigra senza sosta. Il cristiano, a rigor di termini, è un frontaliere a cavallo tra due mondi… perché solo il cristiano riconosce, in cima al cero pasquale, l’umile fiamma della Risurrezione che, ovunque si manifesta con il suo chiarore,

squarcia già la notte di questo mondo:

 

nel perdono,

nella ricerca sincera della pace,

nell’amore umile,

nella preghiera che sgorga irresistibile,

nell’azione di grazie e negli Alleluia che risuonano senza sosta nella notte di Pasqua:

come cantava bene Davide, facendosi voce di tutti:

 

O notte di vera felicità,

notte nella quale il cielo si unisce alla terra,

nella quale l’uomo incontra il suo Dio”.

 

La vita da risorti è un canto,

un sorriso anche quando si piange,

una porta che si spalanca per l’incontro,

una mano sempre tesa,

una vita donata gratuitamente

perché è l’amore che vince la morte.

 

 Non la vita, l’amore.

Quello di Gesù, risorto e vivente.