Non è certo la prima volta che celebriamo insieme questa messa del giovedì, più santo di tutti.
E lo facciamo con commozione e con gioia.
Lo dice bene il salmo 133:
“Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
E’ come olio profumato... E’ come rugiada dell’Hermon...”
È il momento più bello e significativo della vita del nostro anno liturgico, sentiamo vicini a noi tutti cristiani che iniziano questo sacro triduo.
Scrive un grande autore:
”Quando Gesù durante l’ultima cena, raduna attorno a sé la comunità e la provvede di tutto ciò che è necessario alla sua vita, non parte dal servizio sacrificale della grande liturgia del Tempio. Il suo riferimento è un contesto domestico e la cerchia ristretta della fraternità.
Per il suo memoriale, il Signore ha scelto la struttura vivente del pasto familiare, di festa, di cui il liturgo è il padre di famiglia e le cui forme non dipendono più dal culto principale del tempio, ma si ricollegano a un contesto informale, vicino alla vita”.
La nostra preghiera, soprattutto quella pasquale, risulta sempre bella, solenne, curata, grazie all’aiuto di molti... eppure riesce a mantenere una dimensione familiare, forse perché Gesù lo sentiamo vivo e presente nella nostra vita personale e, per la sua grazia, possiamo dire di conoscerci almeno un poco... Per questo a nessuno risulta strano condividere in questo contesto quanto di più prezioso abbiamo:
la fede, la vita di ogni giorno, la nostra capacità di amare, le nostre fragilità, il nostro desiderio di lui, il volerlo seguire con tutto il cuore e, nello stesso tempo,la gioia e la fatica di essere cristiani oggi.
”Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita”.
Così Giovanni inizia a narrare il gesto che Gesù compie durante una cena condivisa con i discepoli, alla vigilia della sua morte.
Dobbiamo riconoscere che anche noi come Pietro facciamo fatica a capire, non riusciamo a condividere del tutto quello che Gesù sa.
Lo capiremo dopo, al termine di questi giorni santi del Triduo pasquale.
Tuttavia, possiamo lasciarci guidare dal modo in cui Giovanni racconta quanto accadde durante questa cena.
Gesù depone le vesti... immagine che ritornerà sotto la croce:
“I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù preso le vesti ne fecero quattro parti una per ciascun soldato”, i soldati prendono le vesti di Gesù gliele tolgono come si fa per un condannato, e possiamo immaginare con quanta delicatezza compiono questo gesto.
Giovanni usa tuttavia un verbo importante, tipico del suo vocabolario, che significa precisamente “accogliere”: i soldati più che prendere, “Accolgono” le vesti di Gesù ... nel racconto della cena quelle vesti Gesù le aveva già deposte, le aveva già donate, e per amore, nella logica del dono di sé che ci salva, che trasfigura persino i nostri gesti di violenza, di odio, nei gesti con cui egli consegna se stesso nell’amore.
I soldati gli tolgono la vita: in verità, dice Giovanni, accolgono quella vita che Gesù ha già liberamente offerto e con amore donato!
E proprio durante la cena, come ricorda Paolo ai Corinzi, disse: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi...”
Tra ciò che accade durante quell’ultimo pasto e quanto i soldati fanno a Gesù ai piedi della croce c’è, piccola, una domanda sulla quale converrebbe che noi ci fermassimo per un istante...
Come possiamo alla luce del dono di Gesù recuperare il valore della nostra presenza di preti e di cristiani in questo nostro mondo?
Lo riconosco volentieri non siamo importanti noi;
è importante Gesù Cristo!
Il mondo potrebbe bene sopravvivere senza di me
(Anzi!!!), ma non potrebbe affatto sopravvivere senza quel Gesù che noi annunciamo e del quale siamo testimoni.
Gesù è l’amore di Dio in gesti umani.
E senza questo amore l’uomo non può vivere in modo umano...
Siamo tutti condannati a morte: abbiamo qualche decennio da vivere, ma poi inevitabilmente la morte verrà.
Alcuni dicono godiamoci la vita tanto vale...
altri insistono nel dire diventiamo capaci di amare.
Nel primo caso il rischio è che siamo meno uomini se pensiamo solo al godimento della vita,
nel secondo ci sembra meno felici perché amare costa!
Se riconosciamo l’amore di Dio per noi come origine della nostra vita comprendiamo che l’amore è la cifra vera dell’esistenza umana perché quando impariamo ad amare la nostra vita acquista dignità e valore.
E se riconosciamo che l’amore viene da Dio possiamo anche sperare che l’amore sia più forte della morte perché un’esistenza spesa per amore porta con sè la speranza dell’umanità.
Noi vorremmo dire al mondo l’amore di Dio e non facciamo questo solamente con parole lo facciamo narrando una vita concreta: è Gesù il fondamento sul quale è costruito tutto l’edificio della vita cristiana.
Rimane vero quanto scrive Paolo: se Cristo non è risorto allora è vana la nostra predicazione ed è vana la vostra fede.
Perché se Cristo non è risorto il Vangelo che annunciamo rimane un’idea.
In questa luce, questa sera, mi permettete di dirvi una parola sulla vita del prete.
Vita, la nostra, a volte semplice, a volte misera, certamente una vita di peccato e di grazia, come la vostra. La vita del prete nasce in questa libertà che ci è donata dalla risurrezione di Gesù.
“Andiamo a Gesù perché vediamo in Lui
l’uomo che siamo chiamati a diventare;
Amiamo l’uomo perché riconosciamo in lui il volto di Gesù. Stiamo vicino i malati, visitiamo le case dove si piangono i morti, spendiamo tempo ed energie per educare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani pur sapendo che gran parte di loro si dimenticherà di noi e del Vangelo, continuiamo a preparare coppie al Matrimonio... ben sapendo che alcuni ci usano, convinti di saper far tutto da soli... (Belli i vostri piedi di fidanzati con i quali inizierete il cammino che segnerà la vostra vita e grazie di cuore per il cammino fatto insieme...)
Chi ce lo fa fare?
Gesù Cristo e il suo Vangelo;
l’amore per l’uomo in tutte le manifestazioni della sua vita.
Nella sua nobiltà e nel suo peccato.
Nessuno è più convinto di noi che nell’uomo ci sono più cose da ammirare che da disprezzare e perché quest’uomo possa vivere spendiamo noi stessi.
A costo anche dell’ingratitudine, della cattiveria, a volte, anche della calunnia.
Ci basta ricordare quello che è scritto nel capitolo 25º di Matteo: “Quello che avete fatto al più piccolo di questi miei fratelli l’avete fatto a me”.
Ci basta questo per vedere nel volto di ogni uomo e di ogni donna i lineamenti di Gesù. Possiamo essere più facilmente ingannati o truffati, proprio perché non riusciamo ad essere diffidenti del tutto, nemmeno di fronte a un estraneo. Eppure come ricorda Paolo ai Corinzi:
“Insultati, benediciamo;
perseguitati, sopportiamo;
calunniati, confortiamo.
Siamo diventati come la spazzatura del mondo,
il rifiuto di tutti fino ad oggi”.
Mi piace ricordare questa descrizione che Paolo fa del servo della parola.
Devo riconoscere di ricevere da voi, dalla mia gente, molto più onore e rispetto di quanto so di meritarmi.
Tuttavia le parole di Paolo mi consolano...
Mi aiutano a capire che tutte le debolezze, le fragilità,
le incomprensioni che posso sperimentare nella mia vita non rendono meno umano il ministero;
al contrario, rendono ancora più evidente che il nostro ministero nasce e trova un senso solamente in Gesù: “Abbiamo un tesoro prezioso in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi”.
Anche noi preti, forse particolarmente noi preti, siamo costretti a vivere sulla nostra pelle i peccati, le incertezze e i dubbi, le perplessità, le angosce di tanti nostri fratelli.
Ed è giusto così...
Dovremmo forse cercare di vivere tranquilli quando gli uomini, le donne accanto a noi sperimentano fallimenti familiari, infedeltà, incredulità, disorientamento?
Quando i giovani guardano al futuro più con timore che con speranza?
Accettiamo con gioia la vostra fatica di vivere e cerco di rendermi conto del privilegio che ho:
quello di avervi come mia famiglia;
di potere supplicare sapendo che c’è un orecchio attento che mi/ci ascolta; di poter servire il Signore esprimendo in questo modo la nostra riconoscenza gioiosa.
All’inizio di questo Triduo: grazie di cuore.
La nostra vita di preti non è facile ma è pienamente umana e degna di essere vissuta fino in fondo.
Ricordiamo papa Francesco, il nostro vescovo Pierantonio, tutti i preti del mondo, soprattutto quelli che sono soli e soffrono nella mente, nel corpo o nello spirito...
Buon inizio del cammino di Pasqua!
E insieme rendiamo grazie per tutto questo a Gesù Cristo nostro Signore e unico Salvatore.
Questa omelia ha attinto al magistero del Vescovo Luciano Monari.
Vuole essere un omaggio e un piccolo gesto di gratitudine verso un uomo grande, vero dono del Buon Pastore per la nostra Chiesa locale.
Un vescovo che forse abbiamo amato, poco ascoltato, mai obbedito.